Riflessione

Dice un antico racconto rabbinico che la colomba, la sera del grande Giorno della creazione, si avvicina triste triste ai piedi del Creatore. Dal suo Trono di fulgore il Signore le rivolge lo sguardo.
«Ho paura, Signore del Cielo e della terra. Il gatto mi insegue».
«Hai ragione, colombella. Ecco qui: ti regalo un paio di ali. Va’ e non avere più paura».

La colombella è tutta contenta, ma la sera dopo viene ancora a zampettare ai suoi piedi.
«Il gatto mi insegue, sommo Creatore».
«Ma ti ho dato le ali…».
«Ecco, Signore… Già prima, con queste due zampette così corte, era una fatica: adesso che ho questi due cosi che mi pesano sulla schiena è pure peggio».

E il Creatore, nel suo sguardo di sconfinata tenerezza: «Ma colombella: io ti ho dato le ali non perché tu le portassi, ma perché le ali portassero te».

E i rabbini concludono: «Nella Scrittura, Israele è spesso paragonato alla colomba. Per quale motivo? Perché il Creatore ha donato a Israele le ali della Torà, così che potesse volare alto e solcare i cieli della vita. Ma accade alle volte che Israele senta la Torà come un peso, e se ne lamenti come per un giogo che schiaccia».

Osare una vita all’altezza del cielo

La nostra vocazione fondamentale è a volare alto. La vita ci chiede continuamente di rispondere a questa chiamata a solcare le altezze e le profondità della condizione umana. Siamo al mondo per spalancare le ali del desiderio ed esprimere il nostro potenziale di avventurieri dell’esistenza, di esploratori del Mistero che freme in ogni cosa. La dimensione religiosa della vita vuole accompagnare e favorire la drammatica gioia del nostro volo.

«Se guardassimo sempre il cielo finiremmo per avere le ali», scriveva Flaubert. Il Creatore ci chiama anzitutto a osare l’avventura di una vita all’altezza degli orizzonti del Cielo.


Affidarsi al vento dello Spirito

D’altra parte, scrive il nostro Arcivescovo nella Proposta pastorale (leggi qui), «la vita personale diventa un giogo pesante e uno smarrimento se non ascoltiamo la Parola che chiama e non viviamo la grata accoglienza della nostra vocazione». Questa vocazione vuole spalancare le ali di ognuno alla «speranza invincibile che si affida alla promessa di Gesù, Vita eterna, gioia piena, visione di Dio faccia a faccia».

La preghiera come ali, per rendere possibile l’affidamento al vento dello Spirito, se vogliamo giocare con questa immagine. «Ho l’impressione che sia una pratica troppo trascurata da molti, vissuta talora come inerzia e adempimento, più che come la necessità della vita cristiana». Più come un peso da portare, che non come ali che ti sollevano.

«Non riesco a non pensare che la tristezza, il grigiore, il malcontento possano avere una radice anche nel fatto che preghiamo troppo poco e in modo troppo diverso da come prega Gesù, sempre vivo per intercedere a nostro favore (cfr. Eb 7,25)».

L’Arcivescovo ci invita con insistenza a prendere consapevolezza del dono che, senza posa, lo Spirito offre al discepolo di Gesù. Prima che una pratica da svolgere è un dono da riconoscere, già dato, come le ali alla colomba.

Il desiderio dell’intimità con il Dio vivente riposa al fondo di ogni cuore umano. Lo Spirito di Gesù lavora perché quel desiderio sia preso sul serio, e lo orienta all’avventura della comunione trinitaria. «Gesù […] insegna a entrare in relazione con il Padre, a chiamare Dio con lo stesso nome della sua confidenza e obbedienza, a parlare al Padre come lui stesso, il Figlio unigenito, si confida e si affida».

Gesù insegna a volare alto, addirittura dentro l’intimità con il Padre dei cieli. Accoglierò il dono? Rischierò l’avventura?

di PAOLO ALLIATA, Responsabile dell'Apostolato Biblico diocesano
 

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