Lettera dell'Arcivescovo per il tempo di Quaresima e di Pasqua

Accogliere la Parola che chiama a conversione per praticare la «correzione»: da qui l'invito a valorizzare i percorsi penitenziali e a celebrare questo tempo con particolare intensità.


«Solo persone nuove possono celebrare la Pasqua nuova, perché, ricolme della pienezza di Dio, si radunano, pregano, cantano, con cuore nuovo. Pertanto più seria e attenta dovrà essere la celebrazione della Quaresima, accogliendo la Parola che chiama a conversione». È l’auspicio di monsignor Mario Delpini contenuto nella nuova Lettera per il tempo di Quaresima e di Pasqua dal titolo Celebriamo una Pasqua nuova. Il Mistero della Pasqua del Signore

Continua così la proposta pastorale dell’Arcivescovo per questo anno ancora caratterizzato dalla pandemia, ricordando le celebrazioni dello scorso anno con le chiese deserte e tutti collegati da casa. La speranza è di tornare quest’anno a viverle pienamente nelle chiese.

Monsignor Delpini nella lettera propone alcune parole chiave per sviluppare la sua proposta.



La correzione

«La tribolazione che stiamo vivendo in questa pandemia ha costretto alcuni a lunghe solitudini, altri a convivenze forzate – scrive l’Arcivescovo -. Molti forse hanno sperimentato quell’emergenza spirituale che inaridisce gli animi e logora la buona volontà e rende meno disponibili ad accogliere la correzione e le proposte di nuovi inizi. Questo è il momento opportuno per domandarsi perché l’inerzia vinca sulla libertà, perché il buon proposito si riveli inefficace, perché la parola che chiama a conversione invece che convincere a un percorso di santità possa essere recepita come un argomento per criticare qualcun altro».

Dunque, l’Arcivescovo parte dalla correzione, che «è anzitutto espressione della relazione educativa che Dio ha espresso nei confronti del suo popolo». Un Padre misericordioso, che non punisce, ma ama. «Non sembra pertinente, infatti, interpretare le tribolazioni della vita e le disgrazie come puntuali interventi di un Dio governatore dell’universo, intenzionato a punire il popolo ribelle per correggerlo. Dio, invece, corregge il suo popolo cercandolo e parlandogli in ogni momento di tribolazione e in ogni luogo di smarrimento. Lo richiama con una misericordia sempre più ostinata della stessa nostra ostinazione nella mediocrità del peccato. Lo trae a sé con vincoli d’amore ogni volta che, intontito in una sazietà spensierata o incupito in disgrazie deprimenti, chiude l’orecchio alla sua voce. Lo libera dall’asservimento agli idoli, dalla schiavitù del peccato. La correzione di Dio è il dono dello Spirito, frutto della Pasqua di Gesù, lo Spirito che a tutti ricorda Gesù, speranza affidabile, cammino praticabile».

La correzione è così importante non solo a livello personale, ma anche comunitario. «Nella comunità cristiana la correzione ha la sua radice nell’amore, che vuole il bene dell’altro e degli altri – sottolinea monsignor Delpini -. Non possiamo sopportare quella critica che non vuole correggere, ma corrodere la buona fama, la dignità delle persone; non possiamo sopportare quel modo di indicare errori e inadempienze che sfoga aggressività e risentimento».

Un’aggressività, che sfocia spesso nell’odio, anche a livello culturale e politico. «Nel dibattito pubblico sono frequenti parole ingiuriose e toni sprezzanti che umiliano le persone, senza aiutare nessuno».

Eppure l’esempio di Gesù è radicalmente diverso: «Nel linguaggio paradossale del Vangelo, Gesù mette in guardia dalla pretesa di giudicare i fratelli. Nello stesso tempo Gesù raccomanda la via della correzione fraterna per edificare la comunità nella benevolenza».

La pratica della correzione fraterna non è sempre così diffusa. Invece riveste un ruolo significativo nel cammino di conversione della comunità cristiana. Con esempi molto autorevoli. «La correzione fraterna è una forma di carità delicata e preziosa – precisa l’Arcivescovo -. Dobbiamo essere grati a coloro che per amore del bene della comunità e del nostro bene ci ammoniscono. Tutti ne abbiamo bisogno: il vescovo, i preti, coloro che hanno responsabilità nella comunità e nella società. Credo che dobbiamo molta gratitudine a papa Francesco che in tante occasioni, con fermezza e parole incisive, invita a essere più docili allo Spirito e più coerenti con le esigenze del Vangelo. Ne abbiamo bisogno: confidiamo che ci siano fratelli e sorelle capaci di unire la franchezza con la benevolenza».

Con uno stile preciso: «Abbiamo la responsabilità di aiutare i fratelli e le sorelle anche con la correzione, proposta con umiltà e dolcezza, ma insieme con lucidità e fermezza».

La correzione è un aspetto della relazione educativa, tuttavia sono da mettere in conto le resistenze. «Il rapporto amorevole dei genitori con i figli non basta a fare della correzione un motivo di limpida gratitudine, contiene anche un aspetto di tristezza, di reazione contraria che si esprime in modi differenti nelle diverse età della vita».

Analogamente questo vale anche per la dimensione comunitaria. «Nelle dinamiche dei rapporti ecclesiali si possono constatare analoghe resistenze e talora reazioni poco disponibili alla correzione. La superbia, la suscettibilità, la superficialità, la confusione, il conformismo sono pastoie che inceppano il cammino, vincoli che non ci permettono di essere liberi, ferite di cui non vogliamo essere curati. Il tempo di Quaresima è il tempo opportuno per dare un nome alle radici della resistenza e invocare la grazia di estirparle».


Percorsi penitenziali

Seconda parola chiave è quella relativa ai percorsi penitenziali: «Il tempo di Quaresima è tempo di grazia, di riconciliazione, di conversione».

L’Arcivescovo riconosce che «il sacramento della riconciliazione è un dono troppo trascurato. Il tempo della pandemia ha fatto constatare con maggior evidenza una sorta di insignificanza della confessione dei peccati nella vita di molti battezzati».

Non bisogna però lasciarsi abbattere. E rilancia il sacramento della riconciliazione: «La proposta di questa Quaresima è di affrontare in ogni comunità il tema dei percorsi penitenziali e delle forme della confessione per una verifica della consuetudine in atto, un confronto critico con le indicazioni del rito e le diverse modalità celebrative indicate».

In particolare, monsignor Delpini invita «a rivolgere l’attenzione e a vivere con fede la confessione individuale e la celebrazione comunitaria nella riconciliazione con assoluzione individuale». Con le dovute attenzioni: «È dovere dei pastori curare le condizioni per cui il dialogo penitenziale possa avvenire in ambiente adatto e in sicurezza. Ma credo che oggi sia più che mai importante l’incontro con il confessore per dialogare, aprirsi alla Parola di Dio, porre domande, accogliere i consigli, invocare quel perdono che lo Spirito di Dio ci fa desiderare. Cerchiamo la confessione non per trovare sollievo a sensi di colpa che ci tormentano, ma per rispondere al Signore che ci chiama e ci aiuta a leggere la nostra vita con lo sguardo della sua misericordia». Tutto questo porta frutto: «Il perdono non è una storia che finisce, ma una vita nuova che comincia, anche in famiglia, anche sul lavoro, anche nel condominio…».


Celebriamo la Pasqua

Terza parola è la celebrazione della Pasqua, con una particolare cura: «Il gruppo liturgico, le corali, il Consiglio pastorale, le diverse tradizioni culturali e abitudini celebrative presenti nella Chiesa dalle genti, tutti possono essere chiamati a contribuire per interpretare e predisporre i segni del convenire, la festosa cornice dell’ambiente, le luci, i profumi, i canti, tutto quello che precede e segue la celebrazione. Sarebbe bello che tutto l’ambiente circostante si rendesse conto che i cristiani stanno celebrando la Pasqua, la festa che dà origine a tutte le feste, non solo per un solenne concerto di campane, ma soprattutto con un irradiarsi della gioia, della carità, delle parole della speranza».

Una proclamazione della risurrezione agli uomini di oggi, spesso indifferenti al messaggio cristiano. Ma per questo sono necessari testimoni credibili: «Talora si ha l’impressione che i cristiani siano smarriti e timidi nel custodire questa differenza decisiva rispetto a coloro “che non hanno speranza”. I cristiani sembra che siano più riconoscibili per una specie di malumore nei confronti del tempo in cui vivono, per un richiamo a precetti morali, invece che, in primo luogo, per il fatto che confessano lieti la risurrezione di Gesù, credono la risurrezione della carne e la vita eterna, sperano nella risurrezione con lui, per sé e per tutti».

La proposta dell’Arcivescovo è di vivere i «giorni del Cenacolo» con particolare intensità. «La missione, la “Chiesa in uscita”, la fortezza dei martiri, la sapienza dei maestri, la perseveranza nell’opera educativa non sono frutto di un volontarismo più tenace, di un gusto più temerario per affrontare le sfide. Piuttosto la missione in tutte le sue forme è frutto della docilità allo Spirito. Perciò rinnovo l’invito a vivere i cinquanta giorni del tempo pasquale come i giorni del Cenacolo. Con questa immagine della prima comunità raccolta in preghiera intendo richiamare la dimensione contemplativa della vita, quel tempo dedicato all’ascolto della Parola di Dio, delle confidenze di Maria, madre di Gesù, perché la nostra vita sia rivestita della potenza che viene dall’alto. Per portare a compimento la nostra vocazione, infatti, abbiamo bisogno non di una forza che ci garantisce risultati, ma di una conformazione allo stile di Gesù, della fortezza nella coerenza, della fedeltà fino alla fine».


 

Esci Home